Educatore, insegnante e leader
Alta tensione. Mai soprannome fu così azzeccato - si deve ringraziare il divin Pellegatti per cotanto supplì di scienza -. Vedere Pippo allenare è come vederlo in campo. E’ adrenalina pura. Inutile che lui cerchi di mimetizzarlo con un bell’abito scuro e una camicia bianca – oltre alle scarpe che varranno quanto un mio stipendio di giornalista professionista – o sbracciando meno del solito ai suoi ragazzi. “Educatore” si definisce. “Insegnante”. La realtà è che a Inzaghi la vittoria eccita. Lui vive per il successo, ne è quasi dipendente. In senso buono, naturalmente.
Lo si nota quando i suoi Allievi Nazionali segnano al Bologna (per cinque volte): la reazione di gaudio è la medesima sebbene ogni gol abbia un valore diverso. Lo si nota quando Yaffa corre da lui dopo aver realizzato il primo rigore. Lo si nota alla prima chiamata dubbia del guardalinee con relativa occhiataccia. Ma lo si nota soprattutto quando la squadra soffre e subisce gol. Lui, empatico, soffre con i suoi. Come se fosse ancora un calciatore ruspante. La cinquina rifilata al Bologna è un segnale. “Ho l’umiltà di non sentirmi ancora un allenatore, dopo solo 3 settimane”. Tutto vero, Pippo. Ma la capacità di suscitare emozioni, di coinvolgere il pubblico e di trascinare il gruppo sono le doti obbligatorie per diventarlo.
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