Perché l’intesa Milan Usa-Maldini non poteva durare più a lungo. Senza lo scudetto l’avrebbero lasciato libero già un anno fa!
Nessuno può negare che il brutale epilogo della collaborazione tra il Milan americano e Paolo Maldini faccia ancora un rumore impressionante. È peggio di un terremoto perché le scosse telluriche avvertite dureranno tutta l’estate e si sentiranno fino all’avvio della prossima stagione. Nel calcio poi saranno i risultati acquisiti sul campo a orientare i giudizi futuri. È già successo nella storia del Milan più medagliato, quello dell’era Berlusconi cioè. Al netto infatti delle differenze dettate dalla presenza dei social, la mossa di Gerry Cardinale e del fondo RedBird può essere paragonata all’avvento di Silvio Berlusconi e del capitale Fininvest nel Milan del dopo Farina, febbraio 1986, con la scelta, egualmente rischiosa, di lasciare a casa una statua del milanismo come Gianni Rivera, all’epoca vice-presidente del club presieduto da Farina. Paolo Maldini ha fatto molto di più come dirigente rispetto all’altro storico capitano, sul piano dei risultati, sul rilancio internazionale del marchio, e in materia di rapporti con i calciatori da convincere, per il trasferimento a Milanello o per il rinnovo contrattuale. È indiscutibile.
Eppure non bisogna dimenticare anche il resto. Tutto il resto. Per esempio le modalità con cui lui e Leonardo liquidarono Rino Gattuso, ereditato da Fassone e Mirabelli. Per esempio la resa, deficitaria, del mercato di Leonardo il quale spese per Piatek e Paquetà la bellezza di oltre 70 milioni caricandoli su un bilancio già appesantito dal faraonico mercato di mister Li con discutibili risultati tecnici. Poi il recente confronto molto aspro con Pioli e la decisione, respinta da RedBird, di sostituire Stefano Pioli con un altro allenatore. L’identità circolata è quella di Andrea Pirlo ma non è questo che conta. La spiegazione più autentica su ciò che è accaduto lunedì 5 giugno 2023 non può essere fornita da questi brandelli di verità. C’è qualcosa di più importante da analizzare. E credo che in fondo la questione sia soltanto questa: se sei il manager di punta di un club non puoi sparare a palle incatenate contro la proprietà nel tentativo di metterla con le spalle al muro per ottenere maggiori investimenti.
Se, firmando il rinnovo contrattuale il 30 giugno 2022, hai accettato la missione aziendale e il format del calcio sostenibile, non puoi chiedere di cambiare rotta alla prima occasione utile, cioè in prossimità della semifinale di Champions contro l’Inter dichiarando in tv che “non siamo strutturati per competere sui due fronti, campionato e Champions, l’ho detto ai miei proprietari americani, occorrono investimenti”.
Era già successo nel maggio 2022, qualche giorno dopo lo scudetto vinto a Reggio Emilia. Paolo Maldini allora, in una intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, attaccò brutalmente Gazidis e chiese, quale garante del milanismo, oltre che la piena autonomia sul mercato, anche tre acquisti di un certo pregio.
Sono convinto che se non ci fosse stato lo scudetto di mezzo e la festa popolare dei tifosi rossoneri con la famiglia Gordon in prima fila nella sfilata dello scudetto, oltre che il cambio imminente di proprietà tra Elliott e RedBird, beh gli americani avrebbero liquidato Maldini già un anno fa. Sono inoltre consapevole che a New York avevano deciso da tempo questo tipo di ribaltone ricordando un paio di eventi: 1) la difesa strenua da parte del proprietario di Stefano Pioli a differenza del capo dell’area tecnica che lo voleva addirittura sostituire a fine stagione; 2) che il progetto realizzato dallo stesso Maldini per un piano triennale riferito al Milan e spedito negli Usa alcuni mesi fa a Gerry Cardinale non ha ricevuto alcuna risposta.
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