Capello: "Ibra a inizio carriera non viveva per il gol. Poi gli feci vedere una cassetta con i gol di Van Basten..."
Fabio Capello, ex giocatore e allenatore del Milan, ha rilasciato una lunga intervista per GameInsight in cui ha toccato ovviamente anche argomenti che riguardano i rossoneri. Ecco le parti salienti:
Quale è stato il suo periodo migliore come allenatore?
“Guarda il più lungo e positivo è stato quello con il Milan perché dopo Sacchi si diceva che la squadra non avesse più voglia di lavorare. Presi in mano questa squadra e diventò la squadra degli ‘Invincibili’. Ci sono dentro 58 partite senza mai perdere, finali di Champions disputate, vittorie di Champions anche. In tutte le altre squadre che ho allenato invece sono stato io a dara quel qualcosa in più. A Roma dopo 20 anni che non vincevano lo scudetto dopo Liedholm, in due anni sono riuscito a vincere il campionato. Sono andato al Real Madrid e abbiamo vinto dopo 3 anni che non vincevano nulla. Alla Juve pure ho vinto. L’unico rammarico è quando sono tornato al Milan perché mi sono trovato una squadra che non era la squadra che avevo fatto io. In ogni posto che ho lavorato ho dato qualcosa, e questa è una soddisfazione”.
Lei è sempre stato riconosciuto come un allenatore molto abile ad ottenere risultati. Questa cosa è una conseguenza dell’allenamento o il risultato prescinde da tutto?
“I risultati si ottengono se vieni seguito dalla squadra, se riesci a far capire loro che sei un leader positivo e che li stai portando verso un traguardo. Questo traguardo lo raggiungi solo se si è tutti uniti e convinti della strada che si sta percorrendo. Bisogna entrare nella mentalità del club e della squadra, trasformando tutte queste cose in positivo. Ciò vuol dire che poi in campo bisogna mettere in pratica quello che si prova in allenamento. Sotto questo aspetto sono necessari dei leader in campo. Questa è la strada che ho sempre cercato di avere quando ho allenato le squadre”.
Crede che gli allenatori vengono giudicati più per i risultati e non per il lavoro che svolgono tutti i giorni?
“Gli allenatori sono sotto pressione anche perché ormai si gioca ogni 3 giorni e magari a volte hanno la sfortuna di avere dei giocatori importanti infortunati e quindi non possono fare quello che vorrebbero. Ma allo stesso tempo questo ti dà la possibilità di rimediare e di risalire subito la china avendo un’altra opportunità. Nel calcio bastano 5 sconfitte e si cambia allenatore. In Italia si adotta questa cosa con regolarità ma ho notato che anche negli altri paesi ora c’è questo andazzo”.
Lei ha vinto molto, ma c’è un trofeo a cui è più legato?
“Il più difficoltoso direi quello di Roma e poi anche quello di Madrid. Quello di Roma perché dopo un anno di lavoro avevo capito di avere in mano una bella squadra. Però mi mancava qualcosa e chiesi di acquistare Batistuta e vincemmo bene. L’anno dopo avremmo potuto vincere ma poi per un discorso di concentrazione e voglia pareggiamo contro il Venezia e perdemmo. A Madrid poi impresa straordinaria dato che avevamo 9 punti di distacco dal Barcellona a 11 partite della fine e poi vincemmo il campionato. Presi una decisione molto forte. Mandai via Ronaldo e poi la squadra cambiò. Queste sono le due imprese più belle perché dipende dalla società dove lavori e dalle aspettative”.
Lei si è mai pentito di qualche scelta?
“Si, mi sono pentito di essere tornato al Milan. Avevo vinto il campionato al Real Madrid e chiesi al presidente di tornare al Milan perché me lo disse Berlusconi. Io devo tutto a Berlusconi. La mia carriera è partita grazie a Berlusconi. La riconoscenza è qualcosa a cui io tengo molto. Lui mi chiamò ma quando ritornai dopo un anno gli dissi che non mi sembrava una squadra adatta a vincere e infatti così fu. Mi dispiacque quando mi licenziarono perché poi l’anno dopo fecero una squadra per vincere il campionato. Merito dell’allenatore Zaccheroni, ma era una squadra che avevo programmato io. Mi sentivo un po’ mio quello scudetto. Sono stato contento di aver pagato un prezzo per riconoscenza”.
Non posso non chiederle di Ibrahimovic…
“La storia di Ibrahimovic è molto bella. Avevo sentito parlare di questo ragazzo. Giocammo con la Roma una partita a Berlino contro l’Ajax. Quando mi arrivò la lista dei giocatori lui non era fra i titolari. Allora pensando che avrebbe giocato nella ripresa, a fine primo tempo rimasi fuori e non andai nello spogliatoio con i giocatori per vederlo come si riscaldava. Capii subito da come palleggiava che aveva grande tecnica. Poi giocò e lo capii ancora di più. In base agli avversari che hai davanti uno può fare delle valutazioni. Con degli avversari scarsi magari può essere facile mettersi in mostra, ma io avevo una squadra valida dato che avevamo vinto il campionato e rimasi impressionato da Ibrahimovic. Poi come andai alla Juventus avevamo solo un attaccante che era Trezeguet e chiesi ai dirigenti di allora di acquistare Ibrahimovic. Acquistammo Ibrahimovic facendo un grande affare. 16 milioni pagabili in 4 anni. L’Ajax aveva visto delle qualità nel giocatore ma magari non ci credeva fino in fondo sennò avrebbe chiesto 16 milioni subito e non in 4 anni. Venne da noi e incominciai a lavorare con lui. Lavorai molto perché non sapeva calciare bene e non sapeva giocare di testa. All’inizio non viveva per il gol. Quando hai un talento ci si mette poco a migliorare, e infatti lui in fretta migliorò i punti deboli. Ma soprattutto capì quella cosa che non aveva dentro, cioè di andare davanti la porta. Allora un giorno mi feci preparare una cassetta con tutti i gol di Van Basten, lo chiamai nel mio ufficio e gli dissi di vedere quella cassetta. Lui ha messo in atto questa cosa diventando assistman e goleador. Sarebbe stato uno spreco se non avesse messo in evidenza tutte le caratteristiche positive che aveva”.
È rimasto sorpreso nel vederlo giocare ancora oggi a quasi 41 anni?
“Conoscendolo, pensavo potesse continuare a lungo. Arrivare ai 40 anni ancora con quella voglia, gli va dato merito. Gli va dato merito perché è attaccato a questo mestiere perché per lui il calciatore è un mestiere. Vuole sempre essere protagonista essendo un leader. Ma sono due cose diverse perché puoi essere un uomo da spogliatoio ma non essere protagonista in campo. Lui però è protagonista sia in campo che fuori. Se lo sento ancora? Si ogni tanto ci sentiamo. Sono stato alla presentazione del suo ultimo libro. Mi ha chiamato sul palco con lui perché è riconoscente. Sa che sono riuscito a tirargli fuori quel talento che aveva dentro mettendo in mostra le qualità in campo”.
Un altro svedese al quale lei è legato è Liedholm…
“Io ho avuto la fortuna di essere giocatore con lui e ho capito tutta la su intelligenza per poter raggiungere un risultato. Vincemmo il campionato anche se non giocai molto perché ero in fase calante. Poi divenni assistente di Liedholm. A 5 giornate dalla fine Liedholm venne esonerato e Berlusconi mi chiese se me la sentivo di allenare. Io dissi di sì ma ad una condizione: che Nils Liedholm non fosse mandato via ma che rimanesse con me. Questa è stata una cosa di cui mi sento orgoglioso. Mi faceva male pensare che una persona di una certa età che aveva dato tanto al calcio venisse mandata via. Berlusconi accettò, Nils pure accettò e rimanemmo assieme anche se la squadra la guidavo io. Credo che lui non era contento della situazione ma mandarlo via sarebbe stato umiliante. Liedholm al Milan ha dato tanto come giocatore, come allenatore e certamente anche come uomo”.
Lei da Liedholm ha percepito qualcosa come allenatore?
“Come tutti gli allenatori, per fare questo mestiere bisogna apprendere da altri allenatori. Io ho assorbito da 3 allenatori. Uno è Helenio Herrera, l’altro è Giambattista Fabbri quando giocavo nella SPAL, e poi Liedholm. Liedholm è stato uno che mi ha insegnato a comportarmi in certe situazioni. Da ognuno di questi 3 ho appreso qualcosa e ho sviluppato il mio stile in tutta la mia carriera”.
Cosa pensa dei settori giovanili di ora?
“Io a volte rimango scioccato quando vedo giocare i ragazzi di 12-13-14 anni perché oggi al posto che insegnarli a palleggiare, gli insegnano gli schemi. Alla base di tutto c’è la tecnica. Con la velocità che c’è oggi nel calcio, se non hai la tecnica non puoi giocare. Quando li vedo fare gli schemi anziché fare tecnica, mi si rivolta lo stomaco. Nei settori giovanili bisogna fare molta tecnica. Questo l’ho imparato da Liedholm. Mi sono accorto che quando avevo 33 anni, ero allenato da lui, ero tornato ad avere il livello tecnico che avevo da giovane e che nel tempo avevo perso non allenandolo ogni giorno. Ma qual è il discorso? Molto semplice. È molto più facile allenare la tattica che la tecnica. Io a Ibrahimovic quando gli ho insegnato la tecnica gli ho detto che per calciare – avendo lui il 46 di piede – doveva mettere il piede d’appoggio in una certa maniera vicino al pallone. Ai giovani quando li vedi lavorare bisogna dirgli queste cose, ma se non riesci a vedere l’errore, non puoi correggerlo. Qualcuno è bravo, ma nella maggioranza vedo cose allucinanti perché l’insegnamento o ce l’hai dentro o non ce l’hai. Nel settore giovanile bisogna puntare al miglioramento e non al risultato di squadra. Il miglioramento costante poi darà i frutti più avanti”.
VAR o non VAR?
“Assolutamente VAR. Pensa che sono stato eliminato dai mondiali per un gol che era dentro…”.
Pirlo o Gattuso?
“Sono differenti, ma insieme sono perfetti. È quello che cerca ogni allenatore a centrocampo. Uno ha una grande regia e vede il gioco come altri non vedono, e l’altro lo supporta con un lavoro oscuro che è determinante”.
La sua top 11?
“È impossibile da fare perché ci sarebbero una 30ina di giocatori che meriterebbero di stare dentro la top 11. Posso dire una cosa però, cioè il giocatore più bravo che ho allenato era Ronaldo. Ma è quello che mi ha fatto più danni. Ho dovuto mandarlo via per poter vincere il campionato. Ma era il più bravo di tutti”.
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