Hanno sbagliato tutti. Perché dovrebbe pagare uno solo? Pippo e Seedorf accomunati dalla stessa passione e dagli stessi problemi: una squadra allo sbando
Ho ancora davanti agli occhi l’espressione vitrea di Inzaghi davanti alla panchina. In un Olimpico che ha fatto da cassa di risonanza anche al coro esasperato dei tifosi rossoneri, l’allenatore rossonero sembrava pronto per salire sul patibolo. Lui solo, con l’espressione che via via diventava sempre più cupa, con lo sguardo incredulo fisso di fronte a sé. Questo è il Milan che gli è stato consegnato? Questo il risultato del suo lavoro? Forse. O meglio: in parte si. E’ compito dell’allenatore lasciare la sua impronta sulla squadra, plasmarla secondo il suo credo, correggerla a seconda delle occasioni. Per far questo ci vogliono idee chiare, derivanti soprattutto dall’esperienza, dall’essersi messo alla prova. A costo di ripetermi, la colpa che poso imputare a Inzaghi è quella di aver accettato un compito ben al di sopra delle sue reali possibilità, sulla abbagliato dal desiderio di coronare un sogno: guidare la squadra per la quale ha lottato, per la quale ha sputato sangue in campo. Un errore di valutazione, evidentemente, che però non lo vede come unico colpevole. Chi ha scelto di affidargli la panchina non poteva non sapere a quali rischi sarebbe andato incontro. Non basta la grande voglia, la passione, l’entusiasmo. Per riportare il Milan ai fasti di un tempo ci vuole esperienza, volontà di programmare il futuro e una visione prospettica in grado di contemplare non soltanto gli eventuali risultati positivi, ma anche i periodi di crisi che, sarà lapalissiano, sono quelli che decretano la differenza tra un allenatore ed un apprendista.
Quindi Inzaghi si trova sull’orlo dell’abisso per troppo amore, per troppa ambizione anche, calcolata in modo maldestro da chi ha optato per una scelta, diciamocelo, aziendalista, nella speranza di poter avere il controllo anche della fase prettamente di campo. Mettere il Milan nelle mani di Inzaghi poteva starci, dandogli però un chiaro capitale umano sul quale potersi misurare. Questo il fulcro del problema, anche se, la stessa proprietà, inneggia al valore tecnico della squadra. Il Milan da due anni, almeno, naviga a vista e nemmeno più le costellazioni che ritraggono eroi del passato possono venire in aiuto a chi non è nemmeno più in grado di riconoscerle. Il termine di paragone più gettonato, al momento, è la squadra di un anno fa che, dopo la disfatta contro il Sassuolo, ha scelto Clarence Seedorf come guida. Il nome dell’olandese ormai riempie le pagine dei giornali, proprio per la concomitanza di eventi che ci spingono a guardare al recentissimo passato. Inzaghi difende la squadra: Seedorf l’aveva ormai impacchettata pronta per il mercato di giugno. Inzaghi fa leva sull’entusiasmo, Seedorf sui valori che hanno fatto grande il Milan. L’olandese non ha avuto paura di zittire chi lo criticava o chi ne sottolineava anche le personali stranezze perché consapevole della sua forza, del suo carisma. I numeri ci dicono che, al momento, ha vinto lui.
Il ritiro imposto alla squadra dopo la debacle contro la Lazio non venga visto come una punizione, ma come il tentativo di ricompattare un gruppo che, sul campo, sembra un gregge in fuga, senza meta. La partita di Tim Cup è il secondo tempo di questa sfida. Con il vantaggio che si riparte dello 0-0. Inzaghi sa che può essere la partita della vita per il suo futuro, ma avrà le forze e il tempo sufficienti a cambiar rotta? L’emergenza causata dagli infortuni, non è certamente l’unico motivo per cui il Milan è stato letteralmente preso a pallonate dalla Lazio che, trovatasi in svantaggio ha però continuato a mettere in campo il proprio gioco. Il Milan invece cosa fa? Esplode al gol di Menez, causato tra l’altro da un errore di misura dell’avversario (poi ovviamente Menez è stato strepitoso nel cogliere l’occasione) e si chiude in difesa, nella speranza di poter arginare i colpi avversari. Non salvo che pochi giocatori nell’ultima gara. Diego Lopez, seppur con il suo solito stile “sporco”, è stato determinante. Mi spiego: non è bello da vedere, ma almeno riesce nell’intento di limitare i danni. La difesa non è pervenuta, in più Mexes perde la testa nel finale lasciando ampi margini di ulteriore polemica. A centrocampo ci si aspettava il miglior Montolivo, ormai decretato mezz’ala ma solitamente determinante davanti alla difesa: impaurito. E vedere quella fascia al braccio in una prestazione così negativa stride con tutto ciò che i grandi capitani rossoneri hanno tramandato fino a noi. Bonaventura e Menez erano gli unici giocatori a poter uscire dall’Olimpico a testa alta. Peccato che il primo è uscito scortato dallo staff medico e l’altro non è riuscito ad essere ulteriormente determinante. Ma almeno ha dato segni di vita. Il Milan è irriconoscibile, impaurito, svogliato e insufficiente in ogni fase di gioco. Il guru Sacchi parla di preoccupazione legata alla fase di non possesso. Da normale osservatrice la preoccupazione sta nel fatto che non vedo fasi riconducibili all’idea di un gioco. Vedo un baricentro sempre più basso, schiacciato davanti ai propri pali in attesa di un varco qualsiasi nel quale possa inserirsi chi ha più coraggio. Il problema è che di coraggio, sui volti dei miei giocatori, non ne vedo nemmeno l’ombra.
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