Il derby mette la parola fine alla corsa all’Europa. Ma Inzaghi e Mancini sono ben saldi al comando. Ora si guarda a Mr. Bee per uscire dall’immobilismo
Prosegue l’epopea sulla cessione del Milan. In questi giorni Mr Bee ha staccato i concorrenti e si appresta a tagliare il traguardo. Permangono i dubbi sulle modalità, sulla quantità di quote in gioco, si rincorrono i pensieri che ci proiettano in una visione del futuro a noi sconosciuta. Si pensa a quale potrà essere il nuovo organigramma, si cerca di immaginare un futuro tecnico sfavillante, magari infarcito da nuovi arrivi in grado di poter far tornare il Milan ai nastri di partenza per un nuovo ciclo vincente, dopo almeno tre anni di eclissi totale. La luce, declinata metaforicamente in chiarezza d’intenti. Questo, in fondo, chiedono i tifosi del Milan. Non è un caso che si parli di questo dopo il derby, ultima tessera di un puzzle che raffigura una delle più tristi immagini del Milan degli ultimi trent’anni. Della partita è stato scritto ormai tutto. Il risultato allontana qualsiasi speranza per le due milanesi di rimanere in corsa per un posto in Europa e, quindi, appiccica definitivamente l’etichetta “fallimentare” alla stagione in corso. I progressi visti sul campo prima del derby si sono arrestati, se non per alcuni sprazzi di vitalità messi in campo dalla squadra di Inzaghi. Ma poi è stata l’Inter a dettare i ritmi partita e, almeno ai punti, ad aver guadagnato qualche applauso in più per il gioco mostrato. Inzaghi e Mancini non salvano nemmeno con il titolo di campione della città la loro esperienza, anche se per entrambi si parla di rinnovo quasi scontato. A meno di ribaltamenti improvvisi che, nel caso del Milan, potrebbero avvenire soltanto con il cambi di proprietà. Il motivo per cui questo scenario sembra stagliarsi nell’immediato orizzonte, sono da ricondursi al peso dei contratti in essere. Mi riferisco all’ingaggio che i rossoneri pagano ancora per Clarence Seedorf, sedotto e abbandonato nel giro di pochi mesi, aggiunto al contratto del quale anche Inzaghi non perde occasione di sottolineare l’esistenza. Di conseguenza, conti alla mano, appare quasi impossibile l’ipotesi di far arrivare sulla panchina del Milan, il nome altisonante di un tecnico importante ed affermato, proprio perché, a meno di risoluzione dei contratti, questo avrebbe un peso immane sulla gestione economica alla voce di spesa per il solo settore tecnico. Se però l’attuale proprietà riuscisse a trovare un acquirente in grado di sobbarcarsi anche questi oneri, magari con ulteriori finanze per rinforzare la rosa a disposizione e renderla competitiva, sotto ogni aspetto, per il ritorno ai fasti di un tempo, allora si, ci troveremmo protagonisti di una svolta reale.
Perché, anche se nell’ultimo mese qualche timido progresso in campo si è visto, questo non è stato sufficiente nemmeno per imporsi in uno dei derby più tristi, classifica alla mano, delle ultime stagioni. L’Inter non è certo stata una squadra irresistibile eppure, soprattutto nella ripresa, ha dettato i ritmi del gioco. Da qui, non dal mero risultato, dovrebbe partire l’analisi critica e sincera su ciò che è meglio per il Milan del futuro. Poter analizzare al di là del monte ingaggi questa squadra, farebbe di sicuro pervenire a giudizi severi e definitivi. Ma questo, lo vediamo almeno da due anni, non è possibile. La ragione economica si staglia su tutto, portando a mitigare sentenze di morte fino a farle sembrare solo pene irrisorie e di poco conto. E questo perché l’attuale società imbrigliata in dinamiche di potere forti, tanto da spegnere qualsiasi tentativo di cambiamento, di scardinamento di equilibri che, tranne per chi tenta di mantenerli in atto, sono ormai troppo precari. Benvenga dunque la cessione della società, con i numerosi addii che questo sembra comportare, se questo è il bene del Milan. Benvenga l’ingresso di idee nuove, di persone con motivazioni diverse e competenze all’avanguardia, con una visione globale del calcio e del futuro slegata da vecchie logiche di potere e possesso. Se il mondo è ormai globalizzato, aperto ai nuovi mercati, è inevitabile che anche il calcio, che è fenomeno dello stesso mondo, si adegui. Che si parli cinese, thailandese, giapponese poco importa: alla fine è il campo ad unire gli interessi di tutti e, il linguaggio del calcio giocato, non ha bisogno di interpreti.
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