Anatomia di un capolavoro
Il sospetto di essere stati fortunati a vivere di persona quegli anni ce l’avevamo già, ma il marchio dell’ufficialità l’abbiamo avuto qualche tempo fa quando un sondaggio della rivista inglese World Soccer ha decretato il Milan di Arrigo Sacchi del biennio 1988/90 come la squadra di club più forte di tutti i tempi, nonché la quarta migliore di sempre in assoluto dietro il Brasile del 1970, l’Ungheria del 1953 e l’Olanda del 1974.
A chi, tra gli addetti ai lavori, gli rinfacciava il fatto di essere un allenatore che non aveva mai giocato a calcio, il piccolo uomo di Fusignano rispondeva con una frase che lasciava senza parole l’interlocutore: “Per essere un grande fantino non bisogna di certo essere stati un grande cavallo!!!”. E di persone senza parole il Suo Milan in quegli anni ne lasciò veramente molte. Quando arrivò sulla panchina del Milan (estate 1987) erano in molti quelli che pensarono che “l’Arrigo non avrebbe mangiato il panettone”, che l’infatuazione del neo-presidente Berlusconi (scoppiata nella stagione precedente quando il piccolo Parma allenato da Arrigo Sacchi (squadra di serie B) in Coppa Italia ci battè a S.Siro nella fase iniziale a gironi e poi concesse il bis eliminandoci nel doppio confronto degli ottavi di finale) sarebbe durata poco, e, soprattutto, che i campioni che allenava si sarebbero sacrificati poco nei suoi allenamenti massacranti e maniacali perché “loro non sono come i giocatori di provincia”! Insomma la diffidenza era tanta, e nessuno avrebbe mai pensato che la squadra che stava per nascere sarebbe passata alla storia del calcio, un autentico CAPOLAVORO!
Allenatore fortunato che ebbe “il culo” di trovarsi al posto giusto al momento giusto e che fu bravo a mettere in campo i campioni che aveva a disposizione? Ma neanche per sogno!!!
Il calcio italiano trova in Arrigo Sacchi un autentico spartiacque: esiste il calcio AVANTI SACCHI (AS) ed il calcio DOPO SACCHI (DS). La sua fu un’autentica rivoluzione copernicana, sia dal punto di vista del sistema di gioco e sia dal punto di vista della mentalità. Prima di Sacchi le squadre di serie A giocavano o in modo molto tradizionale (due marcatori fissi, un libero, un fluidificante, un ala, due mediani, il “numero dieci” e due punte) o con una zona (Liedholm ed Ericksson) fatta di un possesso palla prolungato ed “orizzontale” e la ricerca della copertura degli spazi. Per non parlare della mentalità: le squadre italiane che giocavano in Europa puntavano esclusivamente a limitare i danni in trasferta facendo le barricate per poi giocarsi le qualificazioni in casa.
Con Sacchi cambiò il mondo!
Dal punto di vista tattico e del gioco: un 4-4-2 rivoluzionario dove ogni giocatore aveva compiti sia in fase difensiva che offensiva, grande pressing ed aggressione dell’avversario in ogni zona del campo, intensità, ripartenze fulminanti, difesa alta che pratica in modo “sistematico la tattica del fuorigioco” e, soprattutto, una grandissima ricerca del movimento dei suoi giocatori “senza palla”, con scatti e movimenti continui che offrono più soluzione al portatore di palla stesso. La squadra stava in campo in modo perfetto: distanza tra i reparti eccezionale (squadra in 20 metri), con la “fase difensiva” che iniziava già con le punte, con avversari che non avevano mai il tempo di impostare il gioco con tranquillità. Quel modo di stare in campo permise di realizzare quello che si pensava non si potesse mai ottenere: una squadra molto offensiva, che andava continuamente alla ricerca del gol, che nello stesso tempo era iper-difensiva, che grazie al movimento, al pressing alto ed alla tattica del fuorigioco subiva pochissimi tiri in porta da parte degli avversari.
In poche parole: UN MIX PERFETTO!
A tutto questo si aggiungeva una mentalità calcistica nuova di zecca per il calcio italiano: si gioca allo stesso modo sia in casa che in trasferta, non solo in Italia, ma, udite-udite, in Italia ed in Europa. Roba da matti. La prova che “tutto era cambiato” fu la partita di andata della semifinale di Coppa dei Campioni della stagione 1988/89 in casa del Real Madrid. I Blancos erano famosi, in quegli anni, per essere una squadra debole in trasferta ma che al Santiago Bernabeu non lasciava scampo a nessuno, sia per il modo di giocare, sia (e soprattutto) per il timore che incuteva l’ambiente madrileno nei confronti di avversari ed arbitri. Ebbene, quella sera il Milan ammutolì il Bernabeu: il Real fu dominato in casa sua per 90 minuti, ed in attacco fu irretito al punto di essere messo per oltre 20 volte in fuorigioco. Solo la sfortuna ed una svista arbitrale (gol regolarissimo annullato a Gullit) impedirono al Milan di vincere (finì 1-1). Ma l’impressione che destò il Milan agli occhi del mondo fu devastante: nacque e si affermò ovunque il MILAN DI SACCHI! Da quel giorno le squadre italiane “capirono” che forse si poteva andare a giocare all’estero “per vincere”.
Per raggiungere questa perfezione in campo (nella pratica) era necessario fare molto allenamento (teoria). Era l’allenamento il segreto di quella squadra: la cura maniacale dei particolari, metodi moderni, ordine tattico, disciplina, schemi e movimenti provati e riprovati fino allo stremo. Tutti erano importanti per il progetto, nessuno aveva privilegi o deroghe, tutti dovevano sacrificarsi per gli altri. Il tutto fu reso possibile grazie al fatto che L’Innovatore ebbe a che fare con grandi uomini e professionisti: tutti i giocatori si misero a disposizione del progetto e della filosofia sacchiana. Magari qualcuno non era contentissimo che si mettesse lo schema al di sopra di tutto (un nome a caso…Van Basten), ma i benefici di quel metodo furono grandissimi per tutti. Lo stesso Van Basten, che innegabilmente qualche discussione con Sacchi la ebbe, imparò molto dalle metodologie sacchiane, al punto che da C.T. dell’Olanda la gestione dei suoi uomini ricorda molto quella del buon Arrigo.
L’avventura inizia nel 1987/88. Non inizia benissimo per la verità. Dopo la vittoria all’esordio (a Pisa), al debutto a San Siro il Milan perde in casa con la Fiorentina (0-2). Alla terza il Milan fa 0-0 a Cesena, ed al termine di una partita giocata benissimo Sacchi dirà: “Oggi ho visto la squadra che vincerà lo scudetto”. Lo prendemmo tutti per matto! Soprattutto perché di lì a poco il Milan sarebbe stato eliminato dall’Uefa (dall’Espanyol) ed in campionato non decollava. Il decollo avvenne alla sesta giornata a Verona: prestazione monstre dei Nostri e vittoria per 0-1 con gol di Virdis. Da lì inizia una cavalcata strepitosa, il Milan non perderà più (a parte la sconfitta a tavolino contro la Roma), subirà solo 14 reti e andrà a pendersi in trasferta, sul campo del Napoli e tra gli applausi scroscianti dei tifosi avversari, il suo 11° scudetto. Sarà solo l’inizio del Milan degli Immortali. La stagione successiva (1988/89) inizierà l’epopea internazionale del Milan sacchiano. Il Milan conquista la sua terza Coppa dei Campioni al termine di una cavalcata memorabile conclusasi con il trionfo di Barcellona (4-0) contro la Steaua. Novantamila tifosi milanisti in trasferta salutarono la conquista della coppa più prestigiosa che mancava da vent’anni.
La stagione più bella fu quella 1989/90. Dopo la conquista della Coppa Intercontinentale e della Supercoppa Europea, la squadra rimase in lizza in tutte le competizioni fino alla fine. Perderà lo scudetto in modo del tutto immeritato (un vero furto…per dirla come va detta), perderà la finale di Coppa Italia (contro la Juve), ma vincerà, ancora una volta, il trofeo più ambito. Al Prater di Vienna il Milan conquista la sua quarta (seconda consecutiva) Coppa Campioni battendo il Benfica in finale (gol di Rijkaard). A proposito del campionato: indimenticabile l’ultima partita disputata in casa (a Bergamo per la verità) a scudetto già perso: tutta la squadra fu portata in trionfo dai tifosi, che tributò un applauso a Sacchi che lo indusse alle lacrime di commozione. Per Sacchi fu il massimo delle soddisfazioni: si realizzava quella rivoluzione che lui aveva sempre cercato, e cioè un pubblico che applaudiva la sua squadra non per aver vinto (quindi per il risultato) ma per aver dimostrato di essere la squadra che giocava un gran calcio. Roba da brividi.
La stagione 1990/91 fu la sua ultima del grande ciclo (sorvoliamo sul ritorno del ‘97 al posto di Tabarez). Il Milan giungerà secondo in campionato, vincerà la Coppa Intercontinentale e la Supercoppa Europea ed uscirà nei quarti di Coppa Campioni contro il Marsiglia.
Sacchi è spremuto “come un limone”, ha voglia di rivoluzionare la squadra in quanto è in contrasto con qualche giocatore (Van Basten) e sottopone alla presidenza il classico “o io o lui”….ed il presidente sceglio “lui” ed affida la panchina all’esordiente Fabio Capello. Sacchi andrà a fare il C.T. della Nazionale, e per poco non metterà a frutto la sua proverbiale “fortuna” perdendo solo ai rigori la finale mondiale di USA ’94.
Quattro stagioni, quelle rossonere, vissuti con grande “intensitè”, quattro stagioni in cui, oltre a qualche calciatore, bruciò molte delle sue energie mentali per portare a termine un progetto che avrebbe cambiato per sempre la storia del calcio italiano. Dal giorno dell’avvento di Sacchi nel calcio che conta, le cose non furono mai più le stesse: parole come “pressing”, “ripartenze”, “zona alta”, “diagonali” sono diventate all’ordine del giorno nel gergo calcistico. Per non parlare delle competenze e della mentalità vincente: se si guarda al “mitico” Milan di Sacchi, non è casuale che gente come Ancelotti, Donadoni, Van Basten, Rijkaard ed altri (Gullit e Tassotti) siano diventati dei tecnici affermati e vincenti in tutta Europa o, comunque, studiano da tecnici per il futuro (Costacurta, F.Galli ed Evani). Non è un caso….come non è un caso che Charles Puyol, capitano del Barcellona , qualche tempo fa abbia dichiarato “Noi ci spiriamo al Milan vincente e spettacolare di Arrigo Sacchi”.
Ed allora diciamolo pure, caro Arrigo: noi che abbiamo vissuto gli anni della sua “rivoluzione copernicana” siamo stati proprio delle persone fortunate!
di Gianpiero Sabato
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