Baresi: "Sono arrivato a Milanello per la prima volta da quattordicenne. Il Milan è la mia seconda famiglia"
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Nel giorno di San Valentino La Gazzetta dello Sport ha voluto intervistare colui il quale ha affidato il cuore, vita e carriera al Milan, non facendo mai pesare questa scelta: Franco Baresi.
Torniamo indietro, ancora più indietro: che cos’era il Milan per il piccolo Baresi prima del colpo di fulmine?
"Ricordo di essere stato milanista, di aver guardato questi colori anche quando avevo 10 anni. Sono arrivato a Milanello per la prima volta da quattordicenne e mi sembrava di entrare in Paradiso".
Che cosa è stato il Milan in tutta una vita?
"La mia ancora di salvezza. Ho perso mia madre e mio padre quando ero ancora adolescente e il Milan mi ha accolto, ha dato un senso a tutto".
Che anni erano?
"Difficili, già non era semplice venire via dal paese, da Travagliato, per andare nella grande città. Erano tempi diversi da questi e lo stacco si notava molto. In una situazione così, devi avere la forza mentale".
E quella c’era...
"Sì, ho trasformato il dolore in rabbia e determinazione. È stato così per tutta la carriera".
Sempre nella stessa città, sempre con gli stessi colori.
"La storia mia e del Milan è difficile da ripetere. Io credo che esistano pochi rapporti così: il Milan ha dato un senso alla mia vita e insieme siamo tornati a vincere, in quegli anni con Sacchi".
Che sentimento resta, alla fine di tutto questo?
"Riconoscenza".
Restano anche due soprannomi: “Piscinin” e “Kaiser Franz”, in omaggio a Beckenbauer . Piscinin, che usava anche Brera, le piace anche a 64 anni?
"Massì, mi ricorda una delle persone a cui sono più legato: Paolo Mariconti, il massaggiatore che per me è stato una figura molto importante. Fu lui a inventare quel soprannome, così milanese, quando ero ancora un ragazzo e giocavo già con i grandi in prima squadra. Ero il Piccolino della squadra".
Il Piscinin è diventato padre di famiglia in rossonero. Si è scritto di offerte di altre squadre rifiutate, soprattutto negli anni della B, ma qual è stato il momento in cui siete stati più vicini a lasciarvi?
"Da calciatore, mai. Credo che davvero non ci sia stato un momento da possibile addio. Restare al Milan è stata una scelta di vita. C’è stata quell’esperienza da dirigente in Inghilterra, quando avevo smesso...».
Nel 2002, al Fulham di Al Fayed: 81 giorni da direttore tecnico, poi l’addio.
"In fondo fu soltanto un mese: prima della fine di agosto, ero già tornato a Milano. Avevo capito che non era il posto per me e non ho neanche iniziato a lavorare. Il cordone ombelicale con il Milan non si è mai rotto".
E alla fine, il dirigente lo ha fatto per il Milan.
"Con Fondazione Milan ho conosciuto la povertà, in Kenya, in Marocco. In Libano mi sono messo a giocare per la strada con i bambini. Sono emozioni che mi hanno completato".
Conclusione facile: Baresi non sa stare senza il Milan?
"C’è sempre stato un rapporto di stima tra me e il Milan, tra alti e bassi. Il mio pensiero è sempre stato per la squadra e il club, mai per me stesso, ma mi è sempre tornato indietro tutto. Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste al momento giusto".
Berlusconi, ad esempio.
"È stato come un padre e ha realizzato i miei sogni. Ritirare il numero 6 quando ho smesso è stata una cosa enorme".
Gianni Rivera.
"Il mio primo capitano. Lo avevo visto giocare, da vicino, nelle mie domeniche da raccattapalle allo stadio. All’inizio faticavo a dargli del “tu”, mi sembrava un personaggio lontano, ma la realtà è che mi ha protetto molto. Rivera e Bigon più degli altri mi stavano vicino tutti i giorni, mi tutelavano".
I ragazzi di oggi come guardano Franco Baresi?
"Ah, non lo so, andrebbe chiesto a loro. Io però vedo che i calciatori del Milan mi guardano sempre con grande rispetto. Sono stato in tournée con la squadra, la scorsa estate in New Jersey , e si vede che sanno chi sono, che cosa ho fatto per il club. Dare consigli ai ventenni di oggi non è semplice, abbiamo riferimenti diversi vediamo cose diverse".
Che cosa resta, allora, di Franco Baresi?
"Questo lo vedremo più avanti. Io ho cercato di essere sempre un uomo sincero e metterci il coraggio, come il club e i milanisti meritavano. Il Milan in fondo è stato la mia seconda famiglia".
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