MN VI LEGGE IO, IBRA - "Un uomo per cui potrei morire..."

MN VI LEGGE IO, IBRA - "Un uomo per cui potrei morire..."MilanNews.it
© foto di Daniele Buffa/Image Sport
sabato 26 novembre 2011, 21:00Primo Piano
di Francesco Somma
Settimo appuntamento. Milannews.it vi legge Io, Ibra, l'autobiografia di Zlatan Ibrahimovic

Ci sono persone che riescono ad influenzare le nostre scelte. Per il ruolo che ricoprono, per l’autorevolezza che sono riusciti a conquistare, o semplicemente, perché di loro ci fidiamo. Per i calciatori le persone che contano di più all’interno dello spogliatoio sono molto spesso gli allenatori, e per capirlo non c’è bisogno di leggere l’autobiografia di Zlatan Ibrahimovic . Sfogliando le pagine del libro si può però capire quali sono gli allenatori che hanno contato di più, e sono naturalmente quelli a cui lo svedese dedica ampio spazio. Abbiamo già visto quanto fondamentale sia stato il ruolo ricoperto da Fabio Capello, “uno che il rispetto non lo conquista, ma se lo prende”. Per Zlatan, Capello è l’autorità fatta persona, è un uomo che incute timore solo a guardarlo e, ai tempi della Juve, nessuno riusciva a tenere testa al suo sguardo. “Quando ti passava accanto ti veniva naturale abbassare gli occhi ed evitare di incrociare i suoi occhi”, ricorda lo svedese. Capello è l’allenatore che riesce a strappar via l’Ajax dal corpo di Zlatan: “Tutti quei tic-tac, quella ricerca del dribbling ad ogni costo, non mi interessa, a me servono i gol, solo i gol”. Insomma: una figura importante come nessun’altra. Almeno fino a quando non si arriva al capitolo dedicato a José Mourinho, “un uomo per cui potrei morire”. Zlatan Ibrahimovic parla di Mourinho come di un allenatore unico, diverso da tutti gli altri, “capace di controllare la psicologia dei giocatori come non ho mai visto fare a nessuno”. Tra i due c’è un buon rapporto ancora prima dei tempi dell’Inter. Ibra ricorda un sms al termine di una partita disputata con la Svezia. “Bella partita”, disse José, elargendo poi alcuni consigli all’attaccante. José Mourinho è uno che vive di calcio, non perché di mestiere fa l’allenatore, ma perché si impegna al 110% nella preparazione delle partite e in tutto quello che fa.

“Durante la settimana preparavamo ogni singolo dettaglio, ma non come si fa nella maggior parte delle squadre, tipo «occhio a quando vanno via sulla destra, attenzione all’attaccante centrale, non perdete mai di vista quello». No, niente di tutto ciò. Lui riusciva a mettere completamente a nudo l’avversario, sapeva tutto di tutti, curava ogni singolo dettaglio, dall’altezza degli avversari al numero di scarpe. Ti installava la voglia di dare il massimo perché era lui stesso a dare il massimo e a fare tutto per il proprio lavoro, pur di portare a casa il risultato”. Non meno meticolosa, di certo, è la cura dei minuti che precedono immediatamente la discesa in campo. All’interno dello spogliatoio, prima del fischio d’inizio il tecnico portoghese riesce a trasmettere carica con ogni singolo movimento, anche facendo rivedere ai suoi giocatori gli errori commessi nelle partite precedenti: “Guarda quelli, quelli non siete voi, sono i vostri fratelli, i vostri cugini, ma non siete voi, ci diceva, e ci faceva capire che da lì a qualche minuto ci sarebbe stato da lottare, con parole, gesti e azioni, e quando scendevamo in campo ognuno di noi era pronto a morire per il proprio tecnico”. Ibra adorava Mourinho, e lo fa tuttora, ne apprezza all’inverosimile la capacità di tenere sotto controllo la psiche dei giocatori, di caricarli a molla ma anche di abbatterli come fuscelli: “Una domenica eravamo impegnati in campionato, il giorno dopo io dovevo andare in Svezia a ritirare un premio”, dice Ibra, “nell’intervallo Mourinho venne da me e mi chiese: «Tu domani devi ritirare in premio, giusto?». Gli risposi di sì, e lui aggiunse: «Sai cosa devi fare quando ti daranno quel premio? Dovrai vergognarti, ok? Non si ricevono premi quando si gioca così» Mi distrusse, ma capii che aveva ragione, stavo facendo veramente male”. Mourinho è capace di tenere il controllo in maniera completa, tesse rapporti personali con i giocatori, si interessa a loro non solo come atleti, ma anche come uomini, si preoccupa che stiano bene, non soltanto in campo e in allenamento ma anche nella vita di tutti i giorni. Non ci sono motivi, insomma, perché un tale rapporto e la storia tra Ibra e l’Inter possano interrompersi, fino all’11 marzo del 2009, ritorno degli ottavi di Champions League, un impegno che mette di fronte i nerazzurri e il Manchester United all’Old Trafford. Finì 2-0 per gli inglesi, per effetto delle reti di Vidic e Cristiano Ronaldo. Ibra non sfigura ma non riesce neppure a risultare determinante. “Negli spogliatoi a fine partita eravamo delusi e amareggiati, avevamo giocato male, lo sapevamo perfettamente sia noi che Mourinho, e lui sapeva quanto fosse inutile rimproverarci per gli errori commessi, non aveva senso, e ci incoraggiò ricordandoci di avere ancora in ballo lo Scudetto, che poi avremmo vinto”. Ma in quegli attimi, dopo quel 2-0, Ibra realizzò lucidamente di aver voglia di Champions, di voler vincere quel trofeo che, forse, l’Inter non avrebbe mai potuto dargli. E fu l’inizio della fine…