25 anni dopo Tokyo

17 dicembre 1989. Per la seconda volta nella sua storia il Milan sale sul tetto del mondo, conquistando la Coppa Intercontinentale e, contemporaneamente, vedeva nascere uno speciale feeling con il Giappone, idealmente testimoniato oggi dalla presenza in squadra di Keisuke Honda.
Sette mesi prima lo squadrone guidato da mister Arrigo Sacchi aveva conquistato, nella memorabile finale di Barcellona contro lo Steaua Bucarest, la sua terza Coppa dei Campioni, all’insegna dei due campioni olandesi Marco Van Basten e Ruud Gullit, che però a causa degli sforzi fatti per poter partecipare a quella sfida sarebbe andato incontro a un lunghissimo infortunio, trascorrendo così gran parte di quella esaltante stagione 1989-90 ai box.
La conquista della Coppa permetteva ai rossoneri, oltre a difendere da detentori il titolo europeo, di accedere, per l’autunno, a due prestigiose competizioni internazionali: la Supercoppa Europea e, appunto, la Coppa Intercontinentale. La prima manifestazione, per uno scherzo del destino, riporta il Milan proprio sul campo che lo aveva visto trionfare sullo Steaua, in quanto avversario designato era proprio il Barcellona, vincitore della Coppa delle Coppe (all’epoca seconda rassegna europea, riservata alle vincitrici delle Coppe nazionali) ai danni della Sampdoria di Vialli e Mancini, e allora guidato da Johann Crujff, antico mentore di Van Basten, che nella sfida di andata segna su rigore il gol del provvisorio vantaggio rossonero; nella ripresa il pari catalano, firmato da Amor (una vita in blaugrana e, sul finire di carriera, brevemente transitato alla Fiorentina, senza particolari fortune). A San Siro, nel match di ritorno, vittoria per 1-0 con rete di Alberigo Evani su punizione, e quarto titolo della gestione Berlusconi in bacheca, dopo lo scudetto, la Coppa dei Campioni e la Supercoppa Italiana.
L’anno 1989, che non era iniziato sotto i migliori auspici a causa della clamorosa sconfitta in campionato a Cesena, che aveva fatto vacillare la panchina del tecnico di Fusignano, potrebbe dunque concludersi nel migliore dei modi, con la vittoria anche nella competizione che idealmente proclamava la squadra più forte del mondo. Il Milan tornava per la terza volta a misurarsi con il calcio sudamericano dopo le due partecipazioni vissute a cavallo tra il 1963 e il 1969, la prima conclusasi male con la sconfitta per mano del Santos di Pelè (in gran parte propiziata dallo scandaloso arbitraggio dell’argentino Brozzi) e la seconda con la vittoria ‘insanguinata’ sugli argentini dell’Estudiantes. Allora, il regolamento della competizione prevedeva una doppia sfida di andata e ritorno che però, nel decennio seguente alla vittoria milanista, aveva fatto entrare fortemente in crisi la competizione, proprio a causa della scarsa predisposizione delle squadre campioni d’Europa a sobbarcarsi lunghi viaggi in Sudamerica che molto spesso riservavano ‘trattamenti’ pari a quello che il Milan aveva ricevuto; e così, negli anni ’70 le rinunce di Ajax, Bayern, Liverpool e Nottingham Forest determinano la partecipazione all’Intercontinentale delle squadre sconfitte in finale in tre casi(compreso il 1973, quando la Juventus battuta dai lancieri a Belgrado contende, perdendo, la Coppa all’Independiente in una gara secca disputata a Roma) e addirittura la mancata disputa in due edizioni. A quel punto, per salvare la competizione, si decide di cambiare formato: non più doppia sfida in Europa e Sudamerica, ma gara unica in campo neutro; e proprio allora si fa avanti il Giappone, Paese dalla ricchissima economia ma ancora digiuno di pallone, desideroso di affermarsi anche in quella disciplina sportiva.
La spedizione giapponese del Milan non inizia nel migliore dei modi, a cominciare dall’avversario designato dalla Coppa Libertadores, l’equivalente sudamericano della Coppa dei Campioni, che registra, nel giugno ’89, il successo di una sconosciuta squadra colombiana, l’Atletico Nacional di Medellin, città tristemente conosciuta per il traffico di droga che, si vocifera, gestisca anche la stessa squadra che per la prima volta ha portato al successo il calcio colombiano. In Europa qualcuno addirittura consiglia al Milan di non accettare la sfida con quel club piuttosto chiacchierato; sarà il presidente Berlusconi, con una lettera aperta alla Gazzetta, a far tramontare quella ipotesi, evidenziando come la pur giusta lotta al traffico di droga non è una questione che coinvolge il calcio.
Poco e niente si sa di quella squadra colombiana, realtà calcistica certamente non blasonata come le vicine Argentina e Brasile; i mezzi di comunicazione dell’epoca non erano certamente quelli di oggi, anche la televisione non irradiava calcio da tutte le latitudini come adesso, e così per potersi informare sugli avversari sudamericani le squadre europee mandavano i loro osservatori direttamente al di là dell’Atlantico; ma Natale Bianchedi, storico assistente di mister Arrigo, per una serie di equivoci a Medellin non segue l’Atletico, ma l’altro club cittadino, e il risultato è una relazione piuttosto confusa che, sulla carta, parla comunque di una squadra piuttosto abbordabile, che pratica un gioco in parte uguale a quello che l’allenatore di Fusignano ha sempre impartito ai suoi calciatori, e che il punto di forza dei colombiani è il portiere, che talvolta si spinge addirittura in attacco segnando su punizione e su rigore, ed infatti è proprio l’abilità di questo numero uno così istrionico ad aver permesso al Nacional di sconfiggere, dopo un’estenuante lotteria di calci di rigore, i paraguayani dell’Olimpia Asuncion.
Renè Higuita, questo il suo nome: pittoresco numero uno anche della nazionale colombiana, che aveva recentemente strappato l’ultimo posto disponibile per il Mondiale che si sarebbe disputato in Italia l’estate seguente, superando nello spareggio interzona Israele grazie alla rete di un altro punto di forza del Medellin, Usuriaga. Il c.t. colombiano è lo stesso allenatore della squadra campione del Sudamerica, si chiama Francisco Maturana ed è soprannominato ‘messia’ per il suo gioco che ha portato alla ribalta il calcio del suo Paese. Altro punto di forza della compagine in maglia verde il promettente difensore Andres Escobar, anche lui nel giro della nazionale, che purtroppo quattro anni dopo avrebbe fatto notizia suo malgrado per il suo brutale assassinio al ritorno in patria, dopo la sfortunata autorete contro gli Stati Uniti padroni di casa al Mondiale 1994, che provocò l’eliminazione della Colombia.
Il Milan parte dunque per il Giappone, una settimana prima del match, dopo un pareggio in campionato a Marassi, propiziato da Carlo Ancelotti che, dopo un lungo infortunio che aveva messo a rischio la sua partecipazione all’assalto mondiale, era tornato in tempo per non mancare al grande appuntamento, così come capitan Baresi, che a causa di uno scontro con Klinsmann nel derby di poche settimane prima aveva dovuto saltare la Supercoppa, lasciando al suo vice Mauro Tassotti l’onore di alzare il trofeo a San Siro.
Il lungo viaggio e il fuso orario di otto ore tra Italia e Giappone provocheranno subito stress e affaticamento ai ragazzi di Sacchi, appena sbarcati a Tokyo. Ma nonostante questi disagi i pronostici pendono nettamente dalla parte del Milan, seconda squadra italiana ad affrontare la sfida in terra nipponica dopo la Juventus di Trapattoni che, quattro anni prima, aveva costretto gli spettatori italiani ad alzarsi alle 4 di mattina per assistere al confronto con l’Argentinos Juniors, dal momento che la sfida si è sempre disputata quando in Giappone sono le ore 12 (sarà così fino al 1994, quando per venire incontro alle esigenze degli spettatori europei gli organizzatori della manifestazione decideranno di spostare la partita in prima serata, quando nel Vecchio continente è pieno giorno).
Man mano, proprio grazie alla Coppa Intercontinentale, i giapponesi stanno iniziando ad appassionarsi al ‘football’, che man mano insidia, nelle passioni nipponiche, baseball e arti marziali; e grande curiosità e interesse suscita il Milan; l’eco delle imprese dei ragazzi di Sacchi è giunto anche ai crescenti calciofili dagli occhi a mandorla, che in occasione del match si uniscono agli avventurosi supporter rossoneri che si sono sobbarcati i quasi 10mila chilometri che separano l’Italia dal Sol Levante.
Un’altra piccola ma fastidiosa insidia attende i rossoneri appena scesi in campo: il suono assordante delle trombette con cui i tifosi nipponici caratterizzano gli eventi sportivi del loro Paese.
L’arbitro è lo svedese Fredriksson, incrociato dal Milan pochi mesi prima in occasione della semifinale di andata al Bernabeu contro il Real Madrid, conclusasi sull’1-1, dove aveva incomprensibilmente annullato un regolarissimo gol di Gullit a metà ripresa.
Ci si aspetta, nonostante queste piccole peripezie che hanno accompagnato la spedizione giapponese, una partita spettacolare ricca di azioni da gol; grande è invece la sorpresa, per i tifosi rossoneri e italiani, di trovarsi di fronte una compagine che pratica un gioco molto simile a quello di Sacchi che però poco o nulla lascia allo spettacolo, e così i 90 minuti diventano una sorta di partita a scacchi tra due squadre che si studiano in maniera affannosa cercando raramente di avvicinarsi alla porta avversaria; e quando questo accade ci pensa Higuita a sbarrare la strada del gol agli attaccanti rossoneri, con uscite improvvise ma tempestive dalla porta, che imbrigliano le azioni offensive milaniste. Ci prova Rijkaard: alto; ci prova Massaro: Higuita respinge in uscita. Al 90’ Van Basten ha il match-ball, ma è ancora l’estremo(ed estroso) difensore sudamericano a sbarrare la strada del gol. E così, al termine dei tempi regolamentari, il risultato è ancora fermo sullo zero a zero, e per decretare la squadra campione del mondo sono necessari i tempi supplementari, con lo spettro dei calci di rigore che, come abbiamo visto, hanno già decretato il successo del Medellin sull’Olimpia Asuncion nella finale Libertadores. Il timore è che i colombiani vogliano giungere proprio a questa soluzione finale per sfruttare al meglio l’abilità del loro portiere, tanto bravo nel neutralizzare quanto nel realizzare le conclusioni dagli undici metri.
Nel corso dei 90’ mister Arrigo ha sostituito Massaro con il piccolo ma già prezioso Marco Simone e Fuser con Evani.
Alla ripresa del gioco la musica non cambia: il Milan attacca, il Medellin si difende, la porta di Giovanni Galli non corre pericoli mentre le scorribande rossonere non scalfiscono la retroguardia colombiana e, quando questo accade, c’è sempre Higuita pronto a intervenire anche con i piedi.
Il primo supplementare scivola così senza scossoni e anche il successivo quarto d’ora pare essere avviato a questa conclusione, con i calci di rigore che appaiono sempre più vicini, quando all’ultimo assalto, a pochi secondi dal fischio finale, da un rilancio di Galli nasce una nuova azione d’attacco che porta Van Basten quasi a tu per tu con Higuita; ma un difensore colombiano, proprio al limite dell’area di rigore, stoppa fallosamente il bomber olandese.
I rossoneri invocano il calcio di rigore, in campo e in panchina; tutti circondano Fredriksson che però sanziona l’intervento con una punizione, nonostante le proteste dei milanisti; alla fine, il Milan accetta la decisione arbitrale, e mentre Higuita predispone la barriera, sul pallone ci sono i due specialisti delle punizioni, Donadoni ed Evani; è proprio quest’ultimo che si incarica della conclusione e, pescando l’angolino giusto, riesce a sorprendere il portiere colombiano facendo esplodere la gioia di tutti, a cominciare da un intrattenibile Galliani che, inquadrato dalle telecamere di Italia 1, rischia addirittura di piombare in campo; c’è il tempo di abbracciare ‘Bubu’, eroe della giornata, di riprendere il gioco per pochi secondi e al fischio finale dell’arbitro svedese la gioia rossonera può finalmente avere inizio. Evani viene proclamato giocatore del match, ricevendo in dono dalla Toyota, sponsor della Coppa, un auto, premio assegnato al migliore in campo dalla prima edizione nipponica; per il centrocampista toscano, cresciuto nel vivaio rossonero e unico superstite, con Baresi e Tassotti, della triste fase che aveva visto il Milan per due volte in serie B all’inizio del decennio e sull’orlo del fallimento, è la soddisfazione più bella quella di essere protagonista, proprio nel giorno del novantesimo compleanno della società rossonera, del secondo titolo mondiale a livello di club, che il Milan avrebbe bissato l’anno seguente contro l’Olimpia Asuncion.
Ma sarebbe stato molto diverso contro i paraguayani, dodici mesi dopo: ritrovato finalmente un Gullit in spolvero, e evitando di ripetere gli stessi errori che avevano caratterizzato il primo viaggio a Tokyo, il Milan avrebbe sconfitto i sudamericani con un rotondo 3-0, nell’apoteosi di uno stadio in gran parte formato da supporter rossoneri, per lo più giapponesi che erano letteralmente stati stregati dal gioco e dal furore agonistico di Baresi e compagni.

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